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Natalia Ginzburg, Vacanze in montagna

Passavamo sempre l’estate in montagna. Prendevamo una casa in affitto, per tre mesi, da luglio a settembre. Di solito, erano case lontane dall’abitato; e mio padre e i miei fratelli andavano ogni giorno, col sacco da montagna sulle spalle, a far la spesa in paese. Non c’era sorta di divertimenti o distrazioni. Passavamo la sera in casa, attorno alla tavola, noi fratelli e mia madre.

A volta la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena; pensava che lui solo sapeva ungere le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze. – Dove avete cacciato la mia piccozza? – tuonava. – Lidia! Lidia! Dove avete cacciato la mia piccozza?

Partiva per le ascensioni alle quattro del mattino, a volte solo, a volte con guide di cui era amico, a volte con i miei fratelli; e il giorno dopo le ascensioni era, per la stanchezza, intrattabile; col viso rosso e gonfio per il riverbero del sole sui ghiacciai, le labbra screpolate e sanguinanti, il naso spalmato di una pomata gialla che sembrava burro, le sopracciglia aggrottate sulla fronte solcata e tempestosa, mio padre stava a leggere il giornale, senza pronunciare verbo: e bastava un nonnulla a farlo esplodere in una collera spaventosa. Al ritorno dalle ascensioni con i miei fratelli, mio padre diceva che i miei fratelli erano “dei salami” e “dei negri”, e che nessuno dei suoi figli aveva ereditato da lui la passione della montagna; escluso Gino, il maggiore di noi, che era un grande alpinista, e che insieme a un amico faceva punte difficilissime; di Gino e di quell’amico, mio padre parlava con una mescolanza di orgoglio e di invidia, e diceva che lui ormai non aveva più tanto fiato, perché andava invecchiando.

In montagna, quando non andava a fare ascensioni o gite che duravano fino alla sera, mio padre andava però, tutti i giorni, a “camminare”; partiva, al mattino presto, vestito nel modo identico di quando partiva per le ascensioni, ma senza corda, ramponi o piccozza; se ne andava spesso da solo, perché noi e mia madre eravamo, a suo dire, “dei poltroni”, “dei salami” e “dei negri”; se ne andava con le mani dietro la schiena, col passo pesante delle sue scarpe chiodate, con la pipa tra i denti. Qualche volta obbligava mia madre a seguirlo; – Lidia! Lidia! – tuonava al mattino – andiamo a camminare! Sennò ti impigrisci a star sempre sui prati! – Mia madre allora, docile, lo seguiva; di qualche passo più indietro, col suo bastoncello, il golf legato sui fianchi, e scrollando i ricciuti capelli grigi, che portava tagliati cortissimi, benché mio padre ce l’avesse molto con la moda dei capelli corti, tanto che le aveva fatto, il giorno che se li era tagliati, una sfuriata da far venir giù la casa. – Ti sei di nuovo tagliata i capelli! Che asina che sei! – le diceva mio padre, ogni volta che lei tornava a casa dal parrucchiere. – Asino – voleva dire, nel linguaggio di mio padre, non un ignorante, ma uno che faceva villanie e sgarbi; noi suoi figli eravamo degli asini quando parlavamo poco o rispondevamo male.

N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi

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